Lo studio è stato condotto da un team di scienziati delle Università di Cambridge e Glasgow, che ha analizzato i dati provenienti da 19 paesi ad alto reddito, utilizzando l’archivio della UK Biobank e della Emerging Risk Factors Collaboration. Sono stati calcolati i rischi (hazard ratio), aggiustati per sesso ed età, per la mortalità dovuta a tutte le cause, in base all’età alla diagnosi di diabete, utilizzando informazioni relative a oltre un milione e 500 mila partecipanti.
L’associazione tra età alla diagnosi di diabete e rischio di mortalità
Emerge, tra i diabetici, un’associazione lineare dose-risposta tra la bassa età di diagnosi e il più elevato rischio di mortalità, rispetto ai soggetti non diabetici, e senza differenze in base al genere di appartenenza. Anche chi sviluppa la malattia più avanti nel tempo, per esempio a 40 anni, vede la propria aspettativa di vita diminuire fino a 10 anni; se la diagnosi arriva a 50 anni, l’aspettativa di vita risulta ridotta di sei anni. Ogni decade si associa quindi a una riduzione dell’aspettativa di vita di circa tre-quattro anni. I ricercatori hanno riscontrato che le cause del fenomeno risiedono nella mortalità legata a condizioni come attacchi cardiaci, ictus, aneurismi.
I risultati supportano l’idea che più bassa è l’età di insorgenza del diabete di tipo 2, maggiore è il danno che l’organismo accumula nel tempo a causa della compromissione metabolica, e mettono in luce l’urgente necessità di attuare interventi che prevengano o ritardino la comparsa del diabete di tipo 2, la cui prevalenza tra i giovani adulti è in crescita a livello mondiale, così come di intensificare il trattamento dei fattori di rischio tra i giovani diabetici. La precoce individuazione del diabete di tipo 2, seguita da un intensivo controllo dei livelli della glicemia, potrebbe infatti contribuire a prevenire le complicanze a lungo termine.
Conclude Stephen Kaptoge, del Victor Phillip Dahdaleh Heart and Lung Research Institute, Università di Cambridge:
il diabete di tipo 2 può essere prevenuto identificando i soggetti a maggior rischio e offrendo loro supporto, in termini di farmaci o cambiamenti dello stile di vita. Ma, a livello della società, altri interventi dovrebbero essere attuati, e riguardano, tra gli altri, la produzione di cibo, l’ambiente, la pratica di attività fisica”.
fonte: medicopaziente.it